Alice Munro: raccontare il tempo

Che il racconto sia più di un allenamento per prepararsi alla grande prova del romanzo è chiaro a tutti gli appassionati di short stories. La conferma è stata l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Alice Munro, nel 2013. L’Accademia ha motivato la scelta dichiarando che le sue storie riescono a “racchiudere in poche pagine l’intera complessità epica del romanzo”. Basta leggere qualche racconto di Munro per averne conferma.
Quel che è meno chiaro, per lo meno a una prima lettura, è come l’autrice sia riuscita ogni volta a far scivolare noi ignari lettori dentro alle sue storie senza che nemmeno ce ne rendessimo conto.

Quando entriamo nella scrittura di Alice Munro, entriamo nel tempo. Non tanto nel suo procedere incessante verso il futuro ma nei suoi gorghi, nelle sue spirali. Pietro Citati ha scritto:

All’improvviso Alice Munro apre uno spiraglio bianco in un racconto. In quel bianco trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato; il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che formano il tessuto diseguale della nostra vita.

Uno spiraglio bianco in un racconto: suggestivo, ma come si fa a crearlo?, potrebbe chiedersi chi è alle prese con la propria scrittura, oltre che con la lettura. È una domanda legittima che trova risposte dopo svariate e attente letture. In questa ricerca il close reading è di aiuto, ed è l’approccio con cui sono tornata a La stagione dei tacchini.

Tra le raccolte di racconti dell’autrice canadese che ho letto negli anni, Le lune di Giove è quella a cui sono più legata e quel racconto in particolare ha lasciato un’impronta profonda sulle mie letture. È una storia in cui lo spiraglio bianco e la complessità sono protagonisti e vale la pena soffermarsi su qualche passaggio per comprendere come possa accadere. Un indizio arriva da Julio Cortázar che in Alcuni aspetti del racconto scrive:

Lo scrittore di racconti sa che non può procedere in modo accumulativo, che non ha come alleato il tempo; la sua unica risorsa è quella di lavorare in profondità, verticalmente, tanto verso l’alto quanto verso il basso dello spazio letterario.

È quel che accade ne La stagione dei tacchini, tradotto da Susanna Basso.

L’incipit e il tempo

È un racconto al passato e in prima persona, inizia così:

A quattordici anni, mi trovai un impiego alla Casa del Tacchino per il periodo natalizio. Per lavorare in un negozio, o come cameriera stagionale, ero troppo giovane e anche troppo timida.
Facevo la sventratrice.

Già queste prime righe regalano tante informazioni: sull’età della protagonista all’epoca dei fatti – raccontati con uno sguardo retrospettivo – sul suo carattere, sulla classe sociale di appartenenza e la mansione che svolge, sul periodo dell’anno – Natale non equivale a un marzo o un ottobre qualsiasi. A Natale le persone si riuniscono, alcuni riti vengono celebrati e condivisi.

Nelle righe successive vengono presentati i colleghi, le loro mansioni e le relazioni che intercorrono tra loro e la protagonista. Avviene anche il primo passaggio temporale, quasi impercettibile.

Morgan Elliot era il padrone e il capo. Lui e il figlio Morgy ammazzavano le bestie.
Morgy lo conoscevo dai tempi della scuola. Lo trovavo stupido e spregevole, perciò mi sentivo a disagio ora che mi toccava considerarlo in modo diverso, se non addirittura come un superiore, solo in quanto figlio del capo.

L’utilizzo dell’imperfetto sia per presentare Morgan e Morgy al lavoro sia per parlare dell’incontro a scuola, avvenuto in un tempo antecedente al lavoro alla Casa del Tacchino, mette le due dimensioni temporali sullo stesso piano.
L’effetto sarebbe stato diverso scrivendo: “Morgy l’avevo conosciuto a scuola. L’avevo sempre trovato stupido…” o ancora “Morgy lo conobbi a scuola. Sin da allora lo trovavo stupido e spregevole…”.
In un attimo su torna al qui e ora – di un evento avvenuto in un tempo passato e raccontato al passato – ma ormai noi lettori siamo caduti nella trama ben congegnata.
Ricapitolando: si comincia dal periodo natalizio, si scivola indietro ai tempi della scuola e in una manciata di parole si torna al periodo natalizio che diventa ora: “… ora che mi toccava considerarlo in modo diverso”.

Il dentro e il fuori

Il racconto si muove su più piani: oltre al tempo c’è un dentro e un fuori.
La dimensione interiore si potrebbe dedurre sin dalle prime righe: la protagonista definisce la sé stessa del passato troppo giovane e troppo timida. Ora che non è più così giovane ha una storia da raccontare, il che significa che dentro di lei c’era e c’è un fermento intellettuale che tramuta in narrazione quel che ha visto, ascoltato, provato, pensato.
La prima volta che incontriamo la dimensione interiore si presenta come uno sguardo a occhi chiusi.

Le prime sere che lavoravo lì, se chiudevo gli occhi, vedevo solo tacchini. Li vedevo appesi a testa in giù, rigidi e spiumati, esangui e freddi, con collo e testa ciondoloni, occhi e narici raggrumati di sangue nero, e le poche penne rimaste – annerite e sporche di sangue pure quelle – a formare una specie di corona. Vederli non mi suscitava ripugnanza, solo la sensazione di un lavoro interminabile ancora da fare.

È un dentro cruento, che corrisponde al fuori.
Il fuori, infatti, segue immediatamente queste righe ed è meccanico, netto.

Herb Abbott mi insegnò il mestiere. Si mette il tacchino sul tavolaccio e gli si taglia la testa con una mannaia. Poi si prende la pelle lasca del collo e la si tira indietro fino al gozzo, incassato nella fessura tra esofago e trachea.
– Tocca qui, sentirai la ghiaia, – disse Herb incoraggiante. Mi fece stringere il gozzo con le dita. Poi mi mostrò come far scivolare indietro la mano per eliminare gozzo, esofago e trachea. Per le vertebre usava un paio di cesoie. – Crac, crac, – disse in tono pacato. – Adesso, infila la mano.
Ubbidii. C’era un freddo mortale, là dentro, nelle interiora del tacchino.

La lezione di anatomia prosegue e, passaggio dopo passaggio, si crea un legame tra Herb, mentore incoraggiante, e la timida protagonista bisognosa di qualcuno che creda in lei.

Se non ci fosse stato Herb a insegnarmi, non credo che avrei mai imparato come si svuota un tacchino. Ero da sempre maldestra, e mi avevano mortificata così tante volte che il minimo scatto d’impazienza da parte di chi mi dava istruzioni avrebbe potuto sprofondarmi nella paralisi da panico. Non sopportavo di essere osservata da nessuno, a parte Herb.

La storia mantiene i riflettori puntati su Herb, sulle teorie che le sventratrici imbastiscono su di lui e sulla sua vita sentimentale.
Mano a mano che la trama si svolge aumentano le contraddizioni e gli spiragli bianchi . Il dentro assume una sfumatura introspettiva e riflessiva. Compaiono le domande: alcune scaturite dalla curiosità morbosa che circonda l’uomo, altre sono della protagonista e riguardano l’interpretazione di ciò che accadde. Non lo svelo qui, vale la pena leggere il racconto.

Le interpretazioni

Il racconto fornisce più di un’interpretazione. Come gli anelli concentrici della sezione di un albero, anche le letture dell’accaduto si allargano con la maturità della protagonista e con gli anni che passano: il suo livello di consapevolezza, per sua stessa ammissione, era scarso all’epoca dei fatti.

Non so se capii fino in fondo quanto del mio successo dovessi a Herb Abbott: sta di fatto che, di quando in quando, mi diceva: «Brava», oppure, con una pacca affettuosa: «Ma lo sai che stai diventando una sventratrice in gamba? Farai strada nella vita».

Gli spunti e i dettagli che si colgono a una lettura attenta permettono di godere della profondità del racconto e di tutte le sue dimensioni. Qui ne ho accennate solo alcune.
A proposito di presente e passato e di profondità, verso la fine della storia ritroviamo, in un paragrafo, il senso della continuità e quello della lacerazione di cui parla Citati. I grassetti sono miei.

Più tardi ancora, presi le distanze da quella spiegazione. Arrivai a prendere le distanze da tutto ciò che non sapevo per certo. Attualmente, mi basta il ricordo della faccia di Herb, della sua espressione insolita e ferita; […]. Che fascino, che piacere, la prospettiva di raggiungere un’intimità proprio con chi non la concede a nessuno. Subisco tuttora il fascino di uomini così, di ciò che mi promettono e poi non mantengono. Anche adesso, mi piacerebbe sapere. Non mi interessano i fatti. E nemmeno le teorie.

Ho sempre pensato che la poetica di Munro sia nascosta anche qui, mimetizzata tra mannaie e grembiuli sporchi di sangue: “Non mi interessano i fatti. E nemmeno le teorie“.
Le storie di Munro non si limitano all’uno o all’altro aspetto. Non c’è mai una direzione univoca, un appiattimento, una direzione sicura.
Che cosa resta, in una storia, se togliamo i fatti e le teorie?
Restano gli spiragli bianchi, la verticalità, la complessità epica del romanzo.

Ogni racconto durevole è come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco. Quell’albero crescerà in noi, farà ombra nella nostra memoria. 

Julio Cortázar

Per chi volesse approfondire l’analisi dei racconti e il close reading, consiglio l’articolo di Evelina Santangelo su Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway.

1 thoughts on “Alice Munro: raccontare il tempo

  • Reply Lucia Urbano 21 Maggio 2024 at 19:23

    Che meraviglia e che spiegazione luccicante per chiarezza!
    Grazie, Silvia

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