Show, don’t tell: le eccezioni alla regola

Raccontare significa creare un mondo e metterlo a disposizione di chi vorrà ascoltarlo, vederlo, leggerlo. Scrivere una storia, soprattutto se si tratta di un testo più lungo di sei parole, significa dare la possibilità a chi legge di conoscere gli eventi, i luoghi e i personaggi che danno vita alla trama.

Come si traduce questo processo nella pratica della scrittura? Come si passa dall’immaginario nella propria mente a un testo compiuto che restituisca al lettore determinate emozioni e informazioni? Lo si scrive, frase dopo frase. Sembra banale, lo so. Eppure, in una dozzina d’anni di didattica sulla scrittura, ho visto tantissimi aspiranti autori incappare nello stesso ostacolo: dare per scontato quel che si conosce bene. Il dolore lancinante dopo una caduta in moto, un’infanzia vissuta nell’isola di Murano, il vuoto che si spalanca davanti a sé dopo aver ottenuto la vittoria più grande… Se un evento, un luogo, un sentimento sono stampigliati nella propria immaginazione o esperienza spesso chi scrive da per scontato che lo siano anche in quelle altrui. Dunque, perché prendersi la briga di esplicitarlo?

A questo bias si aggiungono le conseguenze, non sempre felici, dell’applicazione pedissequa della regola diffusa da molti manuali e scuole di scrittura: show, don’t tell. Ovvero, anziché scrivere che il protagonista è triste descrivi la sua camminata mesta, lo sguardo basso… cosicché il lettore potrà dedurre lo stato d’animo del personaggio. È un consiglio sensato, soprattutto per chi è alle prime armi e tende a essere esplicativo più che narrativo. Oltre al fatto che i cosiddetti spiegoni o infodump non piacciono a nessuno.
Detto questo, le informazioni e qualche spiegazione possono essere di grande aiuto, soprattutto nei romanzi – che prevedono un intreccio, una profondità e una vastità diverse rispetto al canonico racconto breve proposto in molti percorsi didattici e considerato una scrittura propedeutica al romanzo.

Le eccezioni alla regola

I preamboli infiniti e le dichiarazioni d’intenti chilometriche allontanano i lettori, si sa. Sappiamo anche che qualche spiegazione a volte è necessaria. Sono i romanzi stessi a insegnarcelo. Non prendo come riferimento i classici perché una facile obiezione potrebbe sostenere che lo stile del romanzo ottocentesco si discosta dal contemporaneo. Faccio l’esperimento con un romanzo recente, Le schegge di Bret Easton Ellis (Einaudi).

La trama è avvincente – non ne farò parola in questo pezzo, per non urtare la sensibilità dei: no spoiler! E le eccezioni alla regola show, don’t tell non mancano. Concetti importanti per la comprensione del mondo che l’autore sta svelando vengono esplicitati e ribaditi a più riprese, come a dire: fai attenzione, non perderti questa informazione perché è fondamentale per la storia che stai leggendo, per l’esperienza che stai vivendo insieme ai personaggi. Tienila a mente.

È un prendersi cura del lettore, prenderlo per mano e accompagnarlo nella ricca e privilegiata Los Angeles del 1981 dove Bret, il protagonista diciassettenne, è all’ultimo anno della Buckley. A scuola si ritrova a indossare una maschera, a recitare una parte che non gli appartiene, una sorta di prezzo da pagare per essere parte di un’élite. Allo stesso tempo si rifugia in un torpore anestetizzante che aleggia dalla prima all’ultima pagina.

Ho scelto alcuni estratti in cui l’autore spiega la necessità di indossare una maschera e il sentimento del torpore – lo definisce così alla fine del romanzo. Li ho estrapolati da punti diversi del libro – pag 151, 237, 310. Ce ne sono molti altri nell’arco dell’intera narrazione: la loro frequenza fa sì questi concetti siano sempre presenti.
Di seguito il primo estratto (ometto un paragrafo – indicato con […] – perché contiene alcuni dettagli sulla trama). I grassetti sono miei e indicano le parti in cui, per stare alla famosa regola, c’è più tell che show.

Le schegge

Quella settimana di settembre trascorse sfocata – i giorni di mercoledì, giovedì, venerdì restarono vaghi e indistinti. Tutti noi seguivamo le regole e ci comportavamo di conseguenza, indossavamo le nostre uniformi e andavamo a lezione, arrivavamo a scuola e lasciavamo le nostre auto nel parcheggio e attraversavamo il manto stradale fino alla torre campanaria e al cospetto di questa entravamo nel campus, ma io ero imprigionato nel mio universo privato, intento a creare una nuova narrazione per me stesso, anche se cercavo di essere positivo e ottimista. […] Ma stavo anche diventando sempre meno parte della Buckley, stavo opponendo resistenza al mio processo di integrazione nel flusso della vita liceale. Per la prima volta provavo un profondo senso di lontananza da tutto ciò con cui venivo in contatto. E compresi che non ero più visibilmente partecipe non solo alla vita della Buckley ma altresì del mondo circostante. Niente sembrava importarmi. Ero diventato insensibile.

Dopo l’orrore di quel 1981, l’intorpidimento che avevo trovato esaltante durante il secondo e terzo anno di scuola e l’inizio del quarto si consolidò fino a diventare una distaccata freddezza che poi impiegò decenni prima di sciogliersi. Non fui mai più lo stesso dopo quel 1981non ci fu mai un periodo in cui riuscii a riprendermi – e ora posso indicare il momento in cui fui felice per l’ultima volta, o più esattamente le ultime tracce di felicità, o anche solo di calore, prima di precipitare nella paura e nella paranoia e iniziare a comprendere come funzionava in realtà il mondo degli adulti rispetto a quelle che erano state le mie fantasie adolescenziali.

Odiai il modo in cui me lo chiese. Odiai che le importasse. Odiai il modo in cui pronunciò la parola «uscire». Lasciava trasparire un’altra Susan, non più l’impassibile, incurante bellezza di cui mi ero tanto infatuato nelle ultime settimane. Lasciava trasparire che c’erano regole che dovevamo seguire e una sorta di perbenismo che presumevo Susan avesse abbandonato. Ribadiva che ci trovavamo alle superiori, dove si tenevano partite di football e assemblee di metà mattina e balli scolastici e ritrovi degli ex allievi, e i ragazzi non scopavano tra loro e tutti erano fedeli e agivano secondo le regole che ci eravamo dati e a cui ci eravamo conformati. Un anno prima avrei ammesso di fronte a Susan il mio disgusto se si fosse espresssa così, e avrei potuto spiegarle che mi sentivo in quel modo fin dall’estate. Ma da allora qualcosa era cambiato e adesso non potevo più farlo.

Scrivere una storia ha più a che vedere con la stratificazione – di informazioni, indizi… – che con un processo lineare. La trama è fondamentale ma non è l’unico elemento a cui prestare attenzione. E le informazioni, le spiegazioni, se fornite nella misura adeguata, non sono nemici da combattere ma elementi imprescindibili per la comprensione dei lettori.

Le regole come show, don’t tell sono utili e danno sicurezza, soprattutto per chi è agli inizi. Il rischio è di prenderle alla lettera e di applicarle a qualsiasi contesto. Se un racconto di sette cartelle ha un determinato spazio a disposizione, che di certo sarà meglio usare mostrando la storia al lettore, e non spiegandola, un romanzo di settecento pagine, come Le schegge, ha un respiro diverso.

La scrittura non è mera applicazione di norme: ogni regola contempla la propria eccezione. Basta leggere con attenzione per incontrare ottimi romanzi che trasgrediscono le regole. Un lettura e una rilettura attenta sono ottime maestre. Indicano non una ma tante strade possibili, e c’è da gioirne: la pagina bianca è un terreno di infinite possibilità, uno spazio che permette di seguire le regole, di superarle e di crearne di nuove.

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